Carbon tax, un pericolo. Visto che qualcuno sospetta (a ragione) che possa trattarsi di una tassa nuova, aggiuntiva. E dunque micidiale per il nostro già oberato sistema delle imprese. Ma anche un’opportunità, se ben congegnata e manovrata. In forma sostitutiva e non supplementare, ben inteso. Ce lo spiega l’Istituito Bruno Leoni in uno studio. Qui di seguito la versione estesa dell’articolo pubblicato il 25 aprile sul Sole 24 Ore.
Carbon tax in arrivo, ma con calma, e in armonia con le modifiche alla tassazione delle emissioni che verranno concordate tra tutti i paesi europei. Nell’ultima versione della delega fiscale approvata dal Consiglio dei ministri la scorsa settimana la minaccia di introdurre una carbon tax isolata dal resto d’Europa, e soprattutto aggiuntiva al carico fiscale e parafiscale ora sostenuto da molte imprese, sembra scongiurata. E’ comunque confermata la rotta tracciata: nei decreti legislativi di attuazione della delega, che dovranno (teoricamente) essere adottati entro nove mesi dal via al provvedimento, il Governo dovrà inserire «nuove forme di imposizione finalizzate a preservare e garantire l’equilibrio ambientale (green taxes) e revisione della disciplina delle accise sui prodotti energetici in funzione del contenuto di carbonio, prevedendo che il gettito riveniente dall’introduzione della carbon tax sia destinato prioritariamente alla revisione del sistema di finanziamento delle fonti rinnovabili e degli interventi volti alla tutela dell’ambiente».
Dalle imprese si moltiplicano comunque gli altolà: nessuna tassazione aggiuntiva. Semmai un ripensamento della fiscalità ambientale all’insegna della razionalizzazione. Una tesi che trova peraltro il sostegno di quotati analisti. Quelli, ad esempio, dell’Istituto Bruno Leoni. Che in uno studio fresco di stampa esortano: carbon tax sì, ma solo se serve a lanciare un'operazione coraggiosa quanto opportuna. Con la sua applicazione generalizzata va buttato alle ortiche, integralmente e nei tempi più rapidi, l’attuale sistema delle "quote Kyoto" che vorrebbe frenare le emissioni inquinanti e incentivare le tecnologie pulite con l’assegnazione e scambio oneroso dei certificati di emissione.
Sistema iniquo e per giunta difficilmente amministrabile, che come stranoto – si insiste nello studio di Ibl – sta facendo acqua da tutte le parti, infliggendo alle imprese oneri aggiuntivi distribuiti in maniera disordinata e erratica rispetto al vero inquinamento provocato, e perfino rispetto ai diversi paesi che aderiscono al grande accordo ambientale. Ecco dunque vanificata gran parte dell’efficacia dello strumento.
Tant’è che tra il 2005 e il 2007 – si sottolinea nello studio Ibl – la sovallocazione delle quote ha causato il collasso del loro prezzo a livelli prossimi allo zero. Con un curioso effetto boomerang della seconda fase, svoltasi all’insegna delle contraddizioni: nonostante una sovrallocazione che ha causato un surplus di 173 milioni di diritti tra il 2009 e il 2010 il solo settore elettrico ha accumulato un deficit di 216 milioni di diritti obbligando le imprese a mobilitare circa 3 miliardi di euro per gli acquisti aggiuntivi, mentre l’industria manifatturiera ha mostrato surplus di 319 milioni di diritti.
Tutto ciò mentre gli Stati (tutti gli Stati meno il nostro, che com'è noto ha chinato la testa nella negoziazione originaria della distribuzione delle quote Kyoto tra paesi) hanno preferito proteggere l'industria nazionale, assegnando tetti delle quote piuttosto permissivi piuttosto che imporre un'effettiva riduzione. E ciò ha provocato più in un effetto di redistribuzione di risorse che un efficace incentivo a ridurre le emissioni complessive.
Nel complesso – incalzano gli analisti di Ibl – è venuto meno il presupposto fondamentale perché uno strumento di questo genere possa funzionare. Un prezzo sufficientemente stabile e prevedibile dei diritti di emissione è infatti la prima condizione per promuovere gli investimenti nelle tecnologie per abbattere i contenuti di anidride carbonica. E invece il sistema degli Ets è stato caratterizzato da una grande, e evidentemente incompatibile, volatilità dei prezzi. A fronte di un sistema che oltretutto – si sottolinea nello studio Ibl – ha avuto alti costi amministrativi, bruciando risorse che in ben altra direzione dovevano e potevano essere impiegate.
Quali allora i vantaggi che deriverebbero dall'introduzione sostitutiva della carbon tax?
Appare chiaro che un sistema che correla effettivamente e direttamente le emissioni al pagamento di una “penale” sia più semplice da amministrare, più chiaro nei suoi meccanismi di applicazione, più semplice da controllare, più economico da gestire. Si avrebbe così uno strumento sicuramente meno distorsivo, in grado di facilitare con ben altra efficacia il raggiungimento contemporaneo di diversi obiettivi.
Può garantire una stabilità di prezzo. Può essere messo più direttamente in relazione con gli obiettivi di riduzione delle emissioni che si vogliono raggiungere intanto al 2020. Può essere lo stesso tempo uno strumento ad alta prevedibilità per pianificare una fonte di entrate fiscali a medio e lungo termine. Tant'è – valutano gli analisti di Ibl – che tra il 2005 e il 2010 l'applicazione di una carbon tax al posto sistema dell'emission trading avrebbe favorito un'ulteriore riduzione delle emissioni stimabile tra i 7 milioni di tonnellate anno con una tassa di 15 euro per tonnellata di Co2 fino a 65 milioni di tonnellate anno con una tassa doppia (30 euro a tonnellata).
Senza considerare gli effetti ben più sostanziosi che avrebbe introduzione di un sistema come questo sui problematici equilibri degli incentivi ora assegnati alle energie rinnovabili, che pesano tutti sulle bollette elettriche degli italiani. Incentivi che potrebbero essere finanziati con ben maggiore efficacia proprio dal sistema della carbon tax, che porterebbe oltretutto un riequilibrio naturale delle risorse chieste dal sistema delle tecnologie verdi, proprio perché sposterebbe naturalmente all’ingiù la soglia di convenienza per il ricorso a queste tecnologie, proprio grazie alla correlazione diretta della tassazione rispetto al livello effettivo di emissioni. Più convenienza, più competitività delle fonti “verdi” e di conseguenza minor necessità di incentivi. Sembra l'uovo di colombo, proprio in questi tempi di crisi della finanza pubblica e di persistente polemica sul livello ormai stratosferico degli “aiuti” alle fonti rinnovabili.