Fino a ieri era un obbligo per il Paese e un affare per tutti, a dar retta al Governo e all’Enel, primo protagonista designato del rinascimento nucleare italiano. Bye bye atomo, travolto dalle paure della gente (magari non del tutto giustificate ma già abbondanti), poi dal disastro di Fukushima, infine l’ondata referendaria che annuncia un “no nuke” a furor di popolo. Ed ecco la solita mirabile capacità di adattamento made in Italy: il Governo si smarca e dice che in fondo è meglio così. Perfino l’Enel esibisce una improvvisa riverniciata retroattiva. Se fino a ieri il nucleare era un affare ora l’affare è diventato l’abbandono: perché così fan tutti, e siccome noi il nucleare non lo avevamo così acquisiamo un vantaggio. Lo dice l’Enel con la mobilitazione di poderosi report internazionali (sempre presenti nel momento del bisogno). Il Sole 24 Ore ha tentato di focalizzare il problema dando ai suoi lettori qualche elemento di analisi in più. Qui di seguito la versione estesa dell’articolo pubblicato martedì 7 giugno.
Vincitori e vinti. Penalizzati o gratificati dalla gelata su rinascimento nucleare italiano. Ci si conta, ci si interroga, si rivedono le strategie. E lo scenario si comincia a chiarire. Con qualche sorpresa.
Il ruolo del perdente spetterebbe in teoria all’Enel, che doveva essere protagonista della prima ondata delle nuove centrali atomiche italiane insieme all’alleata Edf e alla probabile co-protagonista Edison, partecipata da Edf e quindi in predicato per entrare in Sviluppo Nucleare Italia (Sni), la società creata ad hoc. Enel si straccia davvero le vesti? In fondo no: all’operazione, prudentemente, aveva finora dedicato qualche spicciolo, poco più di un esercitazione accademica. Ripiega, deve rinunciare a qualche ambizione non di dettaglio nei futuri giochi di mercato (vedremo perché), ma non piange.
Può invece tirare un sospiro di sollievo il consorzio sfidante che sembrava puntare su un capo, la filiale italiana della tedesca EOn, ben affiancata da Suez Gaz de France e dalle più robuste tra le ex municipalizzate dell’energia italiana: avrebbe forse combattuto malvolentieri. Sorte non sfavorevole per la terra di mezzo, rappresentata da imprese brillanti ma non gigantesche, come la Sorgenia della galassia De Benedetti. Che nel nucleare, roba da giganti, si era messa autonomamente fuorigioco. Momento teoricamente rosa (ma anche qui con qualche possibile obiezione) per il colosso italiano degli idrocarburi, l’Eni.
L’Enel doveva guidare la prima ondata di centrali nucleari, grazie all’alleanza con Edf per i reattori transalpini Epr di terza generazione. Un affare dal punto di vista economico e industriale? Gli analisti non hanno certezze. Una disgrazia lo stop? In termini finanziari no: le prime spese vere erano programmate per il 2014-2015. E ora il nostro ex monopolista elettrico può comunque concentrarsi sugli altri business di sicuro avvenire: in testa Enel Green Power per le rinnovabili, che prende non a caso quota. Potenza di chi è grande a grosso, e può tenere i piedi in più staffe.
Certo, qualche rammarico c’è. Una certezza solo sussurrata faceva da sfondo alla strategia del nostro ex monopolista elettrico: se avesse davvero realizzato la metà del nostro piano nucleare per coprire almeno un quarto del nostro fabbisogno elettrico entro un paio di decenni (questo diceva il Governo nel piano nucleare) l’Enel si sarebbe assicurata, o meglio ri-assicurata di fatto, una supremazia della produzione elettrica italiana che si sta pian piano ridimensionando, ben compensata peraltro con l’avanzata delle attività Enel all’estero.
Il piano nucleare italiano era infatti condito con garanzie accessorie che per l’Enel rendevano l’operazione più ghiotta che mai, proprio sul versante dei rapporti di forza nel mercato libero. I suoi futuri reattori nucleari per 13mila megawatt, con un ruolo di preminenza della gestione concordato fin d’ora col socio paritario francese, avevano già avuto l’esplicita garanzia di una priorità nel ritiro dell’elettricità così generata. Prospettiva un po’ stridente con le logiche Antitrust e con le fondamenta della borsa elettrica, ma giustificata dalla necessità di mantenere gli impianti nucleari in esercizio pressoché costante nelle 24 ore, pena i requisiti di economicità ma anche di sicurezza nel funzionamento. Accade, del resto, in gran parte del mondo nucleare. Impegni finanziari (massicci) a parte, incognite tecnologiche a parte, tempistica a parte, ecco dunque la vera e ricca posta in gioco della società guidata da Fulvio Conti.
EOn Italia, che dall’Enel ha rilevato gli asset nostrani di Endesa dopo gli obblighi di cessione antitrust legati alla conquista Enel della capogruppo spagnola, ha una matrice fortemente nuclearista, non solo in Germania, peraltro coinvolta ora nel più vistoso tre dietro-front del nucleare mondiale. Era praticamente obbligata a partecipare alla sfida italiana, da capofila, in un consorzio che rischiava di essere subalterno alla forza di fuoco esibita, complice il forte sostegno governativo, da Enel con l’alleata Edf. Partenza con l’handicap, in una sfida ineludibile ma già ricca di incognite aggiuntive per chi non si era già visto assicurare il posto in prima classe.
Soddisfazione, magari un po’ cinica, per chi ha nucleare italiano non aveva mai creduto. A Sorgenia, in fondo, non conveniva crederci: non sufficientemente grande, non sufficientemente robusta, al massimo gregaria. Il rischio di perdere quote a vantaggio degli grandi nuclearisti, in qualche modo propriamente o impropriamente aiutati, non c’è più. Può tirare un respiro.
Intanto può brindare lo stato maggiore dell’Eni. Al nuovo nucleare italiano non ha mai creduto, o comunque ha pensato che non convenisse crederci. L’Italia è un paese che fa funzionare l’elettricità praticamente a tutto gas (metano). Ne paga i pesanti effetti collaterali quanto a dipendenza da un import che ha poche direttrici e prezzi poco negoziabili in conseguenza di una struttura contrattuale che fa perno sulla formula del take or pay a lungo termine.
Per l’Eni sono comunque denari sonanti. E lo stop al nucleare arriva proprio nel momento congiunturale migliore. Risolve perfino qualche problema e offre nuove opportunità. Risolve perché l’onda lunga della crisi globale ha talmente depresso il mercato del metano che l’Eni si è trovata a non onorare per intero i ritiri di gas dai fornitori ed esteri (Russia e Algeria) dovendosi impegnare in una faticosa e comunque penalizzante rinegoziazione. Tant’è che la crisi delle forniture dalla Libia è stata tutto sommato brillantemente tamponata dalla società guidata da Paolo Scaroni ripristinando (ma lo si è fatto solo in parte) quote di contratti take or pay che altrimenti non sarebbero state onorate. C’è ancora spazio per incrementare gli approvvigionamenti. E il futuro, dal punto di vista delle disponibilità globali, e più che roseo grazie al nuovo conclamato fenomeno delle estrazioni di gas non convenzionale, lo "shale gas" da fatturazione di rocce profonde che sta moltiplicando rapidamente le riserve mondiali.
Ottimo momento, visto che il dietro front europeo sul nucleare sta trainando una buona ripresa dei consumi di metano: Ubs, in un rapporto fresco di stampa, stima che la chiusura già sicura (ancor prima degli esiti dell’imminente stress test) di 33 impianti nucleari in Europa porterà una domanda aggiuntiva, subito, per almeno 30 miliardi di metri cubi annui di gas, un terzo di quel che consumiamo noi in Italia.
Ma ecco, per l’Eni, il possibile effetto boomerang a medio-lungo termine: se lo stop al nucleare e l’avanzata dello shale-gas desse impulso soprattutto ai nuovi rigassificatori di gas liquefatto da importare via nave? In questo caso la supremazia Eni, almeno nelle quote aggiuntive rispetto ad oggi, non sarebbe scontata. Le linee di import si sono già aperte, non solo in conseguenza degli obblighi Antitrust ma anche (e forse soprattutto) per l’affacciarsi di un nuovo grande gasdotto verso l’Italia nel quale l’Eni è per la prima volta estraneo: il Galsi che dall’Algeria passa per la Sardegna, posseduto in quote consistenti proprio da Enel e Edison.
Fonte: http://networkedblogs.com/iIlhu
Ci tengono nascoste molte cose, ci sono divoratori di realtà che sono allo stesso tempo divoratori di soldi e fabbricatori di affari opachi. Oppure le informazioni che servono non arrivano mai alla superficie, restano confinate nel rumore di fondo. Per esempio in tutta questa vicenda dei referendum e in particolare di quello sul nucleare, nessuno ci ha detto che con una piccola frazione dei soldi necessari ad entrare nel rutilante mondo atomico, potremmo risparmiare l’energia prodotta da almeno cinque reattori nucleari.
E guardate non si tratta affatto di risparmi sulle lampadine o su razionalizzazioni di utilizzo, anche se queste cose sono importanti, ma proprio di strutture. E qui dovrò fare una piccola digressione tecnica e storica che riduco proprio all’essenziale per far comprendere di cosa si tratta. Il trasporto di energia elettrica comporta delle perdite tecniche (addebitate in bolletta) e che sono inevitabili a causa dell’effetto Joule (dispersione termica dovuta al passaggio di corrente) e per l’effetto corona causato dalla tensione. Queste perdite si aggirano globalmente attorno al 10% scarso e sono in gran parte ineliminabili. Ma il grosso della dispersione è proporzionale alla distanza che la corrente deve deve percorrere prima di arrivare alle case o in generale agli utilizzatori. E nel caso italiano arriva alla incredibile cifra finale di circa il 30% per cento. Praticamente quanto l’acqua dispersa dagli acquedotti fatiscenti. Vale a dire che con una rete efficiente sarebbe possibile risparmiare il 20% di energia prodotta.
Il fatto è che nel ’62 quando venne nazionalizzata l’energia elettrica. l’Enel si trovò ad ereditare le reti dei circa 1300 gestori e produttori di elettricità che erano tra di loro poco o per nulla interconnesse. E da allora nonostante i tanti interventi prima di Enel e poi di Terna, ancora mancano efficienti dorsali adriatiche e tirreniche oltre che i collegamenti tra di esse che riducano i “giri” che la corrente deve fare.
Questa cartina mostra le congestioni della rete italiana di distribuzione ed evidenzia come sia carente e illogica la distribuzione dell’energia, come manchino le dorsali e i collegamenti tra di esse,con la conseguenza di far percorre alla corrente lunghissimi giri prima di poter essere utilizzata. E questo significa una enorme dissipazione che naturalmente riguarda anche l’energia importata. Basti pensare, a questo proposito, che l’energia che i francesi sono costretti a svendere di notte perché i reattori nucleari non possono essere spenti e producono molta più energia del necessario, deve passare attraverso la Svizzera a causa dell’inefficienza degli elettrodotti italiani.
Adesso possiamo fare due conticini. Mediamente il consumo di energia elettrica in Italia è arrivato atorno a 340.000 GWh totali e se si recupera il 20% dovuto alle inefficienze di rete si possono risparmiare 68.000 GWh, vale a dire l’apporto di almeno 5 centrali nucleari del tipo Epr che vadano sempre al massimo teorico. E naturalmente a costi che probabilmente non arriverebbero a quelli di una sola centrale che è di circa 4 miliardi sulla carta, ma 5 nella realtà, quando va bene, come sappiamo dalla Finlandia e dalla Francia. Questo senza dire che un rinnovamento e ammodernamento della rete permetterebbe di sfruttare appieno la produzione eolica che oggi è sottodimensionata proprio per questo tipo di problemi.
Certo, realizzare nuove dorsali e riorganizzare il trasporto dell’energia elettrica è un piano che fa molto meno gola all’industria nel suo complesso, quindi non viene considerata un’operazione conveniente o appetibile quanto il nucleare. E men che meno dunque viene presa in considerazione dal governo. Persino i produttori di energia elettrica non vedono probabilmente una convenienza nell’affrontare nuovi investimenti “solo” per risparmiare.
Come si vede il nucleare piazzato nel Paese più sismico di Europa e contemporaneamente anche privo delle grandissime risorse idriche di cui il nucleare ha bisogno, non è che sia tanto rivolto a differenziare le fonti o a produrre energia che ci manca visto che già oggi la potenza installata è notevolmente superiore, tanto che spesso le centrali idroelettriche vengono tenute ferme a lungo termine, ma a gettare in pasto a un certo affarismo grandi business. In questo quadro vengono totalmente ignorati i notevoli risparmi possibili, che non riguardano affatto i comportamenti virtuosi dei singoli, ma proprio le strutture di base. E mentre in tutto il mondo la parola d’ordine è aumentare l’efficienza e i rendimenti, da noi si cerca solo di aumentare il carburante per un sistema ormai decotto.
Fonte: http://networkedblogs.com/iIlhu