Nulla si butta. Neanche i pezzetti di onde radio che avanzano. E siccome il modo connesso non finisce di crescere, i pezzetti dispersi sono sempre di più. L’idea: perché non riciclarli in capacità di ricarica per i nostri innumerevoli apparati più o meno connessi? La nuova frontiera si chiama Power over Wi-Fi, altrimenti detta PoWiFi: lasciamo il telefonino sul tavolo e lui si carica con l’elettricità contenuta nelle onde radio che girovagano per casa. Che non sia una fake news lo giurano il prestigioso Mit, il cuore americano della tecnologia, insieme al colosso svedese degli apparati per telecomunicazioni Ericsson, dalla lunga e autorevole storia. Via, insieme, ad un progetto di ricerca sui “dispositivi connessi ad alta efficienza energetica” per farli ricaricare automaticamente proprio grazie al PoWiFi, da abilitare con un trasmettitore o addirittura dal nostro router Internet con una semplice aggiornamento del firmware (il suo software operativo).
Se ne parla da qualche anno. Ora il Mit e Ericsson vogliono fare sul serio. Ci riusciranno? E quando? Chissà. Ma una certezza c’è già: quando questa soluzione, da loro già pre-battezzata “Zero Power”, si affaccerà sul mercato sarà – qui in Italia di sicuro – una guerra senza esclusione di colpi.
Come ignorare, parlando di ciò che accade oggi, il no alle antenne delle stazioni radio che governano la rete cellulare, salvo poi lamentarsi se nostro telefonino non funziona bene. Ed ecco il diffuso no alle nuove reti cellulari 5G che dovrebbero aprire la strada all’Internet delle cose. E qualche voce ce l’hanno anche i detrattori del forno a microonde, che magari inondano la casa con i fumi della carne bruciacchiata e dunque cancerogena davvero.
Succederà anche per il PoWiFi, se mai funzionerà davvero. A meno che a tagliare le gambe alla nuova trovata, qui da noi, non sia direttamente l’iper-realismo di chi governa e regola la nostra tecnologia. Come a molti è noto i limiti alle emissioni dei nostri segnali cellulari sono 40 volte inferiori a quelli europei e proprio in queste settimane si sta cercando di alzarli almeno un po’ per sorreggere gli impegni degli operatori a rendere più efficiente le reti di oggi e quelle 5G di domani. Si cerca un compromesso, un ritocco all’insù.
Il bello è che per trovare un giusto equilibrio in tutto ciò si faranno sicuramente spazio, come da italico costume, non i medici, gli scienziati, men che mai esperti telecomunicazioni. Esperienza insegna: faranno fede non solo i moniti ma anche le diagnosi di ben altre figure. Quelle del cantante dal profilo social ipertrofico, del rapper della porta accanto, del disk jockey dei tempi che furono ora in cerca di nuova identità. Proprio così, come è accaduto ed accade ad esempio per i vaccini o per le mascherine anti-covid. Qualche pillola di scienza nell’opposizione al 5G per la verità si è vista: tra i paesi del centro-Italia circola un comitato anti telefonini 5G guidato da un sedicente scienziato che conta una buona esperienza come professore di applicazioni tecniche in una ridente località minore della stessa regione. Immaginiamo sia una figura altamente selezionata.
Il cronista ha lontana memoria della brillante accoppiata di ricorsi di un’amministrazione comunale che dopo i primi vagiti dei cellulari italiani si è esibita in due formali proteste. La prima, con relativo ricorso: no all’installazione delle antenne per la telefonia cellulare perché “inquinanti”. Seconda protesta: contro gli operatori cellulari perché il segnale lì era troppo debole e non sempre i cellulari funzionavano bene. Ci si augura che qualcuno abbia suggerito di risolvere l’arcano spiegando loro che un segnale cellulare che arriva da lontano oltre a ostacolare le nostre chiacchere e la navigazione Internet obbliga il nostro telefonino ad innalzare al massimo consentito la potenza di trasmissione (che altrimenti viene automaticamente ridotta ad una frazione) e dunque le relative emissioni, dannose o non dannose che siano. Ma questa è roba da scienziati o da esperti, non da disk jockey o da guru della porta accanto.
Per chi intanto volesse saperne di più sulla tecnologia PoWiFi ecco un piccolo supplemento di informazioni (altrimenti potete fermarvi qui).
Il PoWiFi se davvero arriverà potrà costituire la soluzione ideale, decisiva, per alimentare ricaricandoli automaticamente gli innumerevoli dispositivi dell’Internet delle cose che promettono di svilupparsi proprio con le reti cellulari di quinta generazione, a partire dai micro-sensori (impianti d’allarme, sensori, telecontrolli da collegare a dispositivi che non è semplicissimo dotare di un collegamento elettrico permanente come ad esempio i contatori del gas) o da applicare a dispositivi esistenti o “embedded” in quelli della prossima generazione. Insomma 5G e PoWiFi potrebbero andare davvero a braccetto.
Il problema è che la tecnologia dell’ “energy harvesting” (molta dell’energia che serve è attorno a noi e la possiamo catturare) è oggetto di intenzioni promesse ma la realtà operativa non sembra vicinissima. Si tratta infatti una cosa ben diversa dalla trasmissione a contatto senza inserire cavi consentite dalle piastre a induzione on cui già carichiamo molti dei nostri telefonini, o alle altre soluzioni sperimentali che consentono con apparecchiature specifiche di trasmettere l’elettricità via aria a una distanza un po’ maggiore.
L’idea di canalizzare l’energia per la ricarica usando i segnali Wi-Fi è ben altra cosa. E non va confusa neanche con le altre soluzioni sperimentali a cui si lavora da tempo. Nei laboratori cinesi si sta ad esempio cercando di sfruttare una delle soluzioni già in uso per massimizzare il rendimento del Wi-Fi, ovvero il beamforming (l’auto direzionalità del segnale rispetto alla all’apparato che lo richiede) ma non il Wi-Fi stesso, per costruire apparati ad hoc.
Mit e Ericsson stanno invece pensando di sfruttare direttamente le reti wireless esistenti come vettore per portare l’alimentazione dispositivi, magari partendo dalle prime sperimentazioni il laboratorio condotte dalla Università di Washington, che pare abbia coniato per prima il termine PoWiFi: una piccola fotocamera posta a una distanza di 5 metri da un router Wi-Fi modificato sarebbe stata capace di scattare una foto ogni mezz’ora grazie all’energia raccolta pian piano e immagazzinata in un super-condensatore che però tanto piccolo non è.
Mit e Ericsson puntano a qualcosa di più. Caricare un cellulare non è uno scherzo è anche per un piccolo dispositivo per l’Internet delle cose ci vorrà un’alimentazione ben più sostanziosa di quella garantita per un istante ogni tanto da un grosso condensatore. Zero-Power: al Mit hanno appunto battezzato così la soluzione promessa, che prevede lo sfruttamento diretto dei segnali a radiofrequenza per un’intensità di ricarica comunque lieve ma credibile. I nostri comitati anti-tutto possono cominciare a memorizzare il termine.