Prima notizia, un po’ sconcertante: trentotto anni per smontare e decontaminare una centrale nucleare. Quella di Caorso, alle porte di Piacenza. Chiusa (come le altre) con il referendum antiatomo del 1987. Sarà (dovrebbe essere) restituita al territorio e alla gente, nei suoi terreni risanati, solo dopo un’ulteriore attesa di 13 anni da oggi, nel 2025. Seconda notizia, da far cadere le braccia: si celebra in questi giorni, a 25 annui suonati dal “macchine ferme”, l’avvio delle operazioni di bonifica. Dopo aver appena brindato ad una tappa fondamentale: lo smontaggio, dopo operazioni ultraventennali, del mitico reattore “Arturo” venerato dai nostri tecnici come uno dei più avanzati (allora) nel mondo.
E così, se tutto andrà davvero bene, gli spazi delle centrale saranno risanati e nuovamente disponibili, solo dopo un’ulteriore attesa di 13 anni da oggi. Tutto ciò è la sintesi dell’italica metodologia che accompagna tutti i nostri lavori in corso. Anzi, di lungo corso. C’è da dire che l’attuale gestione della Sogin, la società pubblica allestita (allora, dopo il referendum) appunto per smontare e decontaminare le centrali, sta pedalando per recuperare terreno. Ma ecco che all’orizzonte si staglia, minaccioso, un altro intralcio: la bonifica potrà dirsi conclusa solo quando il materiale radioattivo, che intanto sarà conservato nelle strutture della ex centrale, potrà essere trasferito nel deposito nazionale unico delle scorie. Che ai tempi del referendum non c’era. E dopo non è arrivato. Nel frattempo è stato più volte promesso e annunciato. Ma ora è ancora lungi da essere perfino abbozzato, sia nella sua conformazione che (soprattutto) nella sua collocazione.